
Un laboratorio a cielo aperto, trasformato in una lezione capovolta di educazione sessuo-affettiva. È quanto avvenuto ieri pomeriggio davanti al Ministero dell’Istruzione e del Merito, in viale Trastevere a Roma, dove attiviste e insegnanti guidate dal collettivo transfemminista Non Una di Meno hanno portato un momento didattico simbolico fuori dalle aule scolastiche per denunciare le limitazioni previste dal disegno di legge sul consenso informato per i laboratori educativi.
L’iniziativa è nata in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e come risposta alla proposta normativa che prevede l’obbligo di autorizzazione dei genitori per qualsiasi progetto di educazione sessuo-affettiva nelle scuole medie e superiori, con divieto per le scuole elementari e controllo preventivo sui materiali utilizzati in classe. Un quadro che, secondo le promotrici, renderebbe di fatto impossibile attivare percorsi strutturati nelle scuole pubbliche.
«Se l’educazione sessuo-affettiva non si può fare dentro le classi, la portiamo nelle piazze e davanti al Ministero» spiega Vanessa, insegnante precaria presente all’iniziativa. La docente ha richiamato l’attenzione sul ruolo del ministro Valditara, primo firmatario del disegno di legge che ipotizza un controllo stringente sui laboratori educativi, imponendo il consenso informato delle famiglie e l’obbligo per le scuole di fornire un’attività alternativa agli studenti che non vi partecipano.
Per Vanessa, questo approccio rischia di svuotare l’efficacia degli interventi: «I laboratori diventerebbero difficili, se non impossibili da svolgere». Oggi l’educazione sessuo-affettiva non è una materia autonoma, ma rientra tra i progetti che le scuole possono scegliere di attivare. «Dipende dalla lungimiranza dei dirigenti o dei singoli insegnanti: se non c’è interesse, non se ne parla», sottolinea.
Dalla necessità di portare in piazza le richieste e le esperienze di studentesse e insegnanti è quindi nata l’iniziativa del collettivo transfemminista Non Una di Meno, una lezione aperta e capovolta dove le esperienze diventano insegnamento condiviso da avvocatə, insegnanti, studentessə o operatrici sanitarie. Si parte dall’educazione come mezzo per un cambio radicale e diffuso, senza però dimenticare le numerose istanze “localizzate” che riguardano dai consultori ai centri anti-violenza della città.
Scegliere il Ministero dell’Istruzione e del Merito per l’iniziativa romana del collettivo è quindi un modo per porre l’attenzione su una delle tematiche che abbraccia tante istanze di una continua battaglia trasversale per l’eliminazione della violenza di genere. E l’obiettivo che il collettivo punta a raggiungere è una riforma strutturale per l’inserimento dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, per sopperire a una carenza sistematica.
«In più di 15 scuole superiori in cui ho lavorato, non ho mai visto un laboratorio di educazione sessuo-affettiva - continua a raccontare Vanessa -. Solo in un caso è stata organizzata una giornata di informazione sessuale, e solo per studenti maggiorenni e previo consenso dei genitori». Un dato che, secondo Vanessa, non rispecchia il bisogno reale degli studenti: «Le informazioni su sesso, identità di genere e consenso le hanno già. Quello che manca è una bussola per orientarsi tra ciò che incontrano online o nella quotidianità».
La docente evidenzia come ad oggi l’unico spazio scolastico in cui si parli, ad esempio, di emozioni sia l’ora di religione cattolica: «Non possono essere solo i docenti di religione o di biologia a trattare questi temi. Serve un intervento più ampio, modulato per ogni età, dall’infanzia alle superiori».
La risposta del governo si sta strutturando attorno a tre disegni di legge che piuttosto che accogliere una costruzione sistematica di lezioni dedicate al tema, si prodiga per la loro valutazione e regolazione.
Il lavoro istituzionale è infatti accompagnato da una serie di vincoli normativi che – secondo le realtà educative e sociali – rischiano di limitarne l’applicazione concreta attraverso paletti di natura ideologica. Proprio su questo punto si concentra il dibattito parlamentare attuale, con tre disegni di legge che definiscono il quadro entro cui l’educazione sessuale e affettiva potrebbe essere formalizzata.
Il sondaggio pubblicato da Amnesty Italia conferma però che l’opinione pubblica non solo è pronta, ma la reclama: il 93% degli intervistati chiede l’introduzione di programmi di educazione affettiva e il 94% sostiene anche l’educazione sessuale, con picchi fino al 95% tra i genitori di figli in età scolare.
Una richiesta sociale forte, che va di pari passo con la preoccupazione per l’aumento della violenza di genere e per un sommerso ancora poco visibile. Ciò che divide, però, è la modalità con cui questa educazione dovrebbe essere introdotta: il 56% teme che l’obbligo del consenso informato scritto dei genitori possa diventare un ostacolo, mentre il 39% lo appoggia come forma di garanzia familiare.
L’orientamento politico verso l’educazione sessuo-affettiva è delineato da tre proposte legislative attualmente in Parlamento. Il ddl Valditara prevede che ogni attività esterna o laboratorio sul tema sia subordinato al consenso scritto delle famiglie, imponendo inoltre alle scuole di garantire un’attività alternativa per gli studenti non partecipanti. Una misura che, secondo insegnanti e operatori del settore, renderebbe i laboratori difficili da organizzare e suscettibili a blocchi preventivi.
Il ddl Gasparri introduce invece norme sull’accesso delle associazioni nelle scuole: definisce criteri stringenti per chi promuove attività educative e prevede sanzioni nel caso in cui siano veicolati contenuti ritenuti “ideologici” o “non conformi ai valori costituzionali”. Secondo i critici, questo potrebbe ridurre il pluralismo educativo, limitando le collaborazioni tra scuole e realtà sociali attive sul territorio.
Infine, il ddl Disforia affronta il tema dell’identità di genere con un approccio che introduce procedure di certificazione e controllo sui minori che esprimono incongruenze di genere, con il rischio di trattare la questione in chiave patologizzante e non educativa. In questo quadro, il tema della libertà di insegnamento e della prevenzione attraverso l’educazione diventa centrale.
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