Roma, 22 novembre 2025
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Al Museo del Patriarcato cinque iscrizioni a nome Filippo Turetta: la provocazione che inaugura la mostra e ne conferma il bisogno

La reazione degli organizzatori è ferma. L’episodio non limiterà l’iniziativa. Anzi, sottolinea l’urgenza di guardare al patriarcato come a un sistema che produce non solo violenza, ma anche complicità culturale

di Anita ArmeniseULTIMO AGGIORNAMENTO 20 ore fa - TEMPO DI LETTURA 2'

È bastata una manciata di ore dall’apertura per rendere evidente quanto il Museo del Patriarcato, inaugurato ieri in via Flaminia 122, non sia una semplice mostra ma uno strumento culturale capace di toccare nervi scoperti.

Al sito della biglietteria dell’evento, al programma del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, sono arrivate cinque iscrizioni tutte a nome di Filippo Turetta, l’uomo accusato dell’omicidio di Giulia Cecchettin. Una provocazione fin troppo esplicita, che riporta il dibattito laddove la mostra intende intervenire. Sulle radici profonde, culturali e sistemiche, della violenza di genere.

Un museo dal futuro che osserva il presente

Il Mupa è aperto fino al 25 novembre e proietta i visitatori nell’anno 2148, data simbolica indicata da ONU e organismi internazionali come la possibile soglia in cui, di questo passo, verrà raggiunta una reale uguaglianza di genere. Da quel futuro immaginato, il pubblico osserva il 2025 come fossimo noi l’antichità. Un modello sociale e di potere arcaico, basato su paradigmi patriarcali, disuguaglianze radicate e una violenza strutturale che oggi continua a produrre vittime.

La filosofia curatoriale: «Raccontare le cause sistemiche è prevenzione primaria»

«Abbiamo immaginato come poter raccontare le cause più sistemiche che portano alla violenza di genere e abbiamo identificato il patriarcato come macro-contenitore dentro cui leggere tutte le dimensioni analizzate dalla ricerca di ActionAid», ha spiegato Nicole Romanelli, una delle curatrici artistiche della mostra che ha poi raccontato come il team abbia scelto di spostare l’attenzione dalle conseguenze ai meccanismi culturali che generano la violenza.

L’ispirazione arriva anche dal pensiero femminista contemporaneo. «Ispirati dal lavoro di Donna Haraway, che parte dal desiderio di immaginare il futuro che vorremmo, ci siamo chiesti: e se provassimo a immaginare un mondo in cui il patriarcato non esiste più e la violenza di genere è scomparsa? Da lì è partito il processo creativo».

Il museo è stato scelto come forma narrativa perché già familiare a chi lo visita, ma anche capace di produrre distacco critico: «Il museo ci permetteva di creare quella sorta di straniamento e provocazione che proviamo quando visitiamo le civiltà antiche e ci chiediamo: ma come facevano a vivere così?».

A sottolineare il senso politico e pedagogico del Mupa interviene anche Fabiana Costantino, coordinatrice del progetto: «Non è possibile contrastare e prevenire la violenza maschile contro le donne senza promuovere l’uguaglianza, e non è possibile promuovere i costi dell’uguaglianza senza agire sulla cultura patriarcale. Questo è il significato dell’uso del patriarcato: siamo qui a partire da questa consapevolezza», ha detto.

Le iscrizioni Turetta, una provocazione che conferma il bisogno della mostra

Le cinque adesioni a nome di Filippo Turetta non sono solo un gesto di cattivo gusto, ma diventano la dimostrazione di quanto la mostra tocchi un punto nevralgico. La provocazione parla la stessa lingua del Mupa, ma lo fa rivelando il lato oscuro del presente. La tendenza a minimizzare, irridere o normalizzare la violenza maschile sulle donne.

La reazione degli organizzatori è ferma. L’episodio non fermerà l’iniziativa. Anzi, sottolinea l’urgenza di guardare al patriarcato come a un sistema che produce non solo violenza, ma anche complicità culturale.

Per eliminare la violenza bisogna scardinarne le fondamenta. Uscire dal museo, tornare al 2025 e guardarlo come un passato da superare diventa un esercizio politico, oltre che artistico.

E se la società del futuro ci osservasse davvero? Forse si porrebbe la stessa domanda che la curatrice rilancia al pubblico: come facevano a vivere così?

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