
Nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Gjadër, in Albania, «non risultano giustificati i trasferimenti di persone dai Cpr italiani». È quanto affermano il Garante regionale del Lazio, Stefano Anastasia, e la Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone, nel rapporto ufficiale redatto dopo la visita ispettiva del 29 e 30 luglio 2025.
I due Garanti hanno documentato le condizioni del centro, nato in base all’accordo tra Italia e Albania, e sottoposto alla responsabilità della Prefettura di Roma.
Già il 7 maggio scorso, la Garante capitolina dei detenuti aveva richiamato l’attenzione sulla presenza di dodici nuovi posti penitenziari “romani” in Albania, comparsi nei dati del ministero della Giustizia: «Vai a controllare i dati mensili del Ministero della Giustizia sulle presenze negli istituti penitenziari, e ti accorgi che il numero delle carceri di tua competenza è aumentato. Dodici posti, per ora vuoti. È ora di organizzare una trasferta», aveva osservato con sorpresa Calderone.
Questi posti fanno erano parte proprio della sezione carceraria di Gjadër.
Una nuova voce nel censimento penitenziario di aprile che segnva il primo riconoscimento formale della competenza di Roma Capitale su una struttura situata all’estero.
Ora, la relazione, indirizzata al prefetto Lamberto Giannini e al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, evidenzia elementi positivi ma anche numerose criticità che «rendono la misura sproporzionata».
Il Cpr di Gjadër si trova in una zona pianeggiante, «circondato da un muro sovrastato da una robusta recinzione metallica» e privo di aree verdi. La struttura, gestita dall’ente Medihospes, può ospitare 144 persone ma al momento della visita erano presenti soltanto 27 trattenuti, provenienti soprattutto da Algeria, Senegal, Pakistan, India e Ghana.
Secondo la relazione, gli spazi interni appaiono in buone condizioni e il vitto è «ritenuto migliore rispetto ad altri Cpr italiani». Tuttavia, mancano completamente aree destinate ad attività ricreative o motorie. I Garanti sottolineano che il cortile, «coperto da reti metalliche», somiglia a una «vera e propria gabbia».
Le persone trattenute arrivano in Albania «dopo lunghi viaggi in pullman e in nave» e, secondo quanto riferito ai Garanti, «durante le ore di viaggio in mare hanno avuto i polsi legati da fascette».
Il rapporto denuncia inoltre le difficoltà dei trattenuti nel comunicare con familiari e avvocati, a causa della collocazione estera del centro e della mancanza di telefoni personali. L’ente gestore ha segnalato «frequenti blackout elettrici e problemi di connessione».
Particolare attenzione è stata riservata al diritto d’asilo: in più casi «la formalizzazione della domanda di protezione internazionale ha subito ritardi di settimane» e alcuni operatori dell’ufficio immigrazione avrebbero «disincentivato la presentazione delle richieste».
Nell’area sanitaria sono presenti personale italiano e albanese, ma il Garante segnala rischi derivanti dalla «differenza di standard tra il Servizio sanitario nazionale e quello albanese». Un trattenuto ha riferito di aver ricevuto «farmaci diversi da quelli prescritti in Italia dopo un intervento chirurgico».
Il documento menziona anche la notizia, che non sarebbe stata smentita dai responsabili del centro, secondo cui il 9 maggio 2025 cinque cittadini egiziani sarebbero stati «rimpatriati direttamente a Il Cairo dall’aeroporto di Tirana. I nostri interlocutori - viene infatti precisato - non hanno smentito l’avvenuto rimpatrio nelle modalità descritte dagli organi di stampa, ma alle nostre ulteriori richieste di chiarimenti non hanno saputo fornirci alcun dettaglio».
I Garanti chiedono così alle autorità italiane di chiarire l’episodio e di fornire la documentazione relativa.
Nel rapporto vengono formulate dieci raccomandazioni alle istituzioni competenti. Tra le principali, «valutare l’inopportunità dei trasferimenti verso l’Albania», garantire la libertà di presentare domanda d’asilo e «rimuovere le reti metalliche a copertura del cortile».
I Garanti invitano inoltre a «vigilare sull’assistenza sanitaria», organizzare attività per rendere la permanenza «meno gravosa» e predisporre «una presa in carico sanitaria per chi viene dimesso dal centro per inidoneità».
«Ogni visita – ricordano Anastasia e Calderone – rappresenta un elemento di collaborazione con le istituzioni competenti, nel comune vincolo ai diritti fondamentali delle persone private della libertà».
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