Pochi giorni fa la legge italiana sull'intelligenza artificiale è diventata realtà: Legge 132/2025, prima normativa nazionale europea, in vigore dal 10 ottobre. Il sottosegretario Alessio Butti ha parlato di «contesto normativo solido con un miliardo di euro a disposizione», la senatrice Licia Ronzulli l'ha definita «la Costituzione digitale dell'Italia».
L'Italia può effettivamente rivendicare un primato concreto. È il primo Paese europeo con un quadro normativo nazionale completo, anticipando Francia, Germania e altri Paesi. Un vantaggio competitivo potenziale che, sulla carta, dovrebbe attrarre investimenti e posizionare il Paese come riferimento continentale per l'innovazione.
Ma quando si scava oltre i comunicati stampa, il quadro si complica. Partiamo dai contenuti: la legge italiana è sostanzialmente un adattamento dell'AI Act europeo, senza particolare innovazione o visione originale. E l'articolo 12 è emblematico della mentalità di fondo: stabilisce che i professionisti potranno usare l'intelligenza artificiale «solo per attività di supporto». Una formulazione che tradisce una visione profondamente sbagliata: l'AI come ausilio marginale, non come strumento strategico.
È qui che si vede la differenza di mentalità. Nel resto del mondo, mentre scriviamo, avvocati usano l'intelligenza artificiale per analisi legali complesse, architetti per progettare edifici sostenibili, medici per diagnosi più precise. In Italia, la legge parte dal presupposto che l'AI "toglie cervello" ai lavoratori e li blocca preventivamente. Il risultato è inevitabile: professionisti italiani con le mani legate mentre i colleghi esteri accelerano.
Non è l'unico punto critico. La governance dell'AI è stata affidata a due agenzie governative - AgID e ACN - invece che a un'autorità indipendente, come aveva chiesto esplicitamente il Garante Privacy in una lettera ufficiale a Parlamento e Palazzo Chigi. «Serve un organismo terzo», aveva scritto Pasquale Stanzione. Proposta ignorata. Risultato: a vigilare su sistemi che impatteranno sanità, giustizia e sicurezza saranno enti i cui vertici sono nominati dal governo stesso.
Anche il «miliardo di euro per startup e PMI» - cavallo di battaglia della comunicazione governativa - si sgonfia all'analisi. Non si tratta di risorse nuove, ma di fondi già esistenti presso CDP Venture Capital ora ripartiti tra intelligenza artificiale, cybersicurezza, tecnologie quantistiche, telecomunicazioni, 5G e Web3. Un approccio "a pioggia" che diluisce l'impatto specifico sull'AI. Il confronto internazionale è impietoso: Francia 10 miliardi dedicati esclusivamente all'intelligenza artificiale fino al 2029, Germania 5 miliardi entro il 2025.
C'è poi il meccanismo delle deleghe. La legge approvata è tecnicamente una "delega": il Parlamento ha fissato principi generali, ma le regole operative arriveranno con «decreti legislativi entro 12 mesi» firmati dal governo. Un sistema che svuota il controllo parlamentare e concentra tutto nelle mani dell'esecutivo - lo stesso che nomina i vertici delle agenzie di vigilanza.
Il paradosso è evidente: l'Italia rivendica il primato europeo con una legge che parte dall'idea di frenare l'innovazione invece di accelerarla, affidata a enti governativi invece che indipendenti, con risorse limitate e regole ancora tutte da scrivere.
L'approccio antropocentrico - con la garanzia che «è riservata al magistrato ogni decisione sull'interpretazione della legge» e la supervisione umana nei settori critici - è condivisibile. Ma serve equilibrio. Limitare l'AI non tutela i professionisti: li rende più deboli.
Il vero test sarà nei decreti attuativi dei prossimi mesi. Ma le premesse non promettono bene. L'Italia aveva l'occasione di scrivere la normativa AI più avanzata d'Europa. Ha scritto la prima, ma non necessariamente la migliore.
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