«Roma non vuole padroni»: la caduta del clan che voleva unificare le piazze della Capitale
- Anita Armenise
- 19 mar
- Tempo di lettura: 2 min
La mala romana e quella campana. Il romanzo criminale di chi ha provato a sedersi sul trono di Roma

«A Libano, 'sta città 'n s'a pijerà mai nessuno, perché Roma nun vole capi». Una realtà, quella emersa ieri, non lontana dalla ricostruzione offerta da Satana, uno dei personaggi del libro Romanzo Criminale di De Cataldo.
Spesso si dice che questa città non vuole Re e infatti, alla fine dei conti, a Roma non c'è mai stata un'organizzazione malavitosa egemone. Neanche quella messa in piedi da Giuseppe Molisso e Leandro Bennato, la cui storia criminale che si è intrecciata con quella dell'ultras della Lazio Fabrizio Piscitelli, ucciso nel 2019 dopo che aveva provato a mettersi sulla loro strada, alzando la testa davanti al leader del nacrotraffico romano.
«Vuole riunire tutte le piazze, riunisce tutto e nessuno discute, la roba la pigliano da loro, capito?», si sente in un'intercettazione del nucleo operativo. Infatti Molisso e Bennato, sotto l'egida di Michele Senese, «o' pazz», ad unificare lo spaccio di Roma c'erano quasi riusciti. Da Tor Bella Monaca al Quarticciolo, da Cinecittà a Primavalle e Casalotti, la loro organizzazione criminale dedita al traffico di cocaina aveva messo sotto controllo le principali piazze di spaccio di Roma, con un giro d'affari di decine di milioni di euro ogni mese.
Un impero eretto sulla violenza e sulle armi, che ieri mattina è stato colpito dall'operazione dei carabinieri, coordinati dall'antimafia. Molisso e Bennato non solo gestivano direttamente il traffico di stupefacenti, ma avevano anche imposto la loro leadership sulle principali piazze, obbligando i capi-piazza ad acquistare cocaina da loro a prezzi maggiorati. La droga veniva importata da due fornitori albanesi, Altin Sinomati, ad oggi irreperibile, e Renato Muska.
Il livello di temibilità del clan è emerso chiaramente dalle parole di un collaboratore di giustizia, riportate nell'ordinanza del gip: «Giuseppe Molisso è uno pericoloso che spara in faccia». Secondo Fabrizio Capogna, altro collaboratore di giustizia, Molisso era temuto per la sua violenza e per la sua capacità di risolvere problemi con metodi brutali, guadagnandosi un rispetto forzato da parte dei suoi sottoposti.
Secondo gli inquirenti, Molisso poteva contare su contatti anche all'interno delle forze dell'ordine. In un'intercettazione, si evince la richiesta di aiuto di un affiliato, Emanuele Selva, che lamentava l'eccessivo numero di arresti nella sua piazza di spaccio: «Fra', per favore, me stanno ammazza... Fra', tutti li giorni me scoppiano 'na retta». Proprio come una scena di un film.