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Femminicidio Sula, il parere della psicologa: «La madre aiuta il figlio? Il fallimento di un'identità mai formata»

  • Immagine del redattore:  Redazione La Capitale
    Redazione La Capitale
  • 16 apr
  • Tempo di lettura: 2 min

Una psicologa ha analizzato il lato oscuro del legame tra genitore e figlio nel caso di Mark Samson che, dopo aver ucciso l'ex fidanzata, è stato aiutato dalla madre a pulire la scena del crimine occultare il corpo

Mark Samson e la madre, Nors Marlapz
Mark Samson e la madre, Nors Marlapz

Un gesto estremo. E non solo per l'orrore del femminicidio, ma per la dinamica che ne è seguita: Nors Marlapz, la madre di Mark Samson, invece di denunciare, ha aiutato il figlio a nascondere il corpo di Ilaria Sula. Un comportamento che, al di là della complicità penale, apre una riflessione sulla psicologia delle relazioni familiari e su un tipo di legame genitoriale che, anziché proteggere, soffoca. Ad analizzarlo è una psicologa abruzzese, Valentina Marroni, tramite un post sui social in cui ha fatto chiarezza su quello che può succedere quando si crea un legame disturbante tra genitore e figlio.


Femminicidio Sula, l'esperta: «La madre finisce per vedere il figlio come un’estensione di sé»

Secondo la psicologa che ha scelto di commentare il caso, «il fatto che una madre aiuti il proprio figlio a coprire un crimine grave, come quello di disfarsi di un corpo, è un atto che, oltre a essere profondamente disturbante, offre un potente spunto di riflessione sulle dinamiche familiari e sulle possibili ripercussioni psicologiche che possono derivare da una relazione eccessivamente protettiva e invadente».


È in queste parole che si fa strada un tema spesso ignorato: i confini sfumati, o del tutto inesistenti, tra genitori e figli. Quando una madre assume un ruolo troppo dominante o iperprotettivo, impedisce al figlio di sviluppare un’identità autonoma, rendendolo incapace di distinguere le proprie emozioni e desideri da quelli del genitore.


«La famiglia – spiega la psicologa – diventa un microcosmo in cui non esistono separazioni chiare tra le identità individuali. I conflitti esterni, come i rifiuti o le difficoltà nelle relazioni interpersonali, vengono vissuti come minacce all’intero sistema familiare. Non c’è il distacco necessario per elaborare il dolore».


In un simile contesto, il rifiuto affettivo può assumere la forma di un trauma ingestibile. Il ragazzo, privo di strumenti emotivi propri, reagisce in modo estremo: la separazione diventa un crollo identitario, un abisso da colmare con la violenza. «Il confine tra accudimento e soffocamento è sottile – aggiunge l’esperta – e una continua invasione della sfera emotiva da parte dei genitori può portare a una visione distorta della realtà. La madre finisce per vedere il figlio come un’estensione di sé, incapace di riconoscerlo come individuo separato, con i suoi errori e le sue responsabilità.»


Il risultato è una crescita emotiva bloccata, dove né il figlio né il genitore imparano a gestire i limiti, i «no», le conseguenze. «Il gesto di complicità – conclude la psicologa – può non essere solo un atto di protezione, ma anche una manifestazione di una psiche che non ha mai imparato a separarsi, né a riconoscere la realtà dei confini emotivi altrui».









 
 
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