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Adolescenza, la fondatrice della Pedagogia Familiare:«Oggi Giamburrasca avrebbe il disturbo oppositivo provocatorio»

Titty Santoriello Indiano

Vincenza Palmieri presenterà il suo ultimo libro «Siamo ragazzi, non siamo diagnosi»  il 7 dicembre alle 10.30, alla manifestazione «Più libri più liberi». Un testo che approfondisce, tra l'altro, il tema della medicalizzazione nella scuola e nella società

Adolescenza Roma disabili
Vincenza Palmieri, fondatrice della Pedagogia Familiare in Italia

«Un tempo si diceva che l’adolescenza fosse il periodo delle crisi, oggi è impossibile avere una crisi di crescita adolescenziale. Se un ragazzino si arrabbia, se è un contestatore, se non vuole uscire, allora è considerato malato». Lo dice Vincenza Palmieri, fondatrice della Pedagogia Familiare in Italia che - nel suo ultimo libro «Siamo ragazzi, non siamo diagnosi» con Armando editore - approfondisce, tra l'altro, il tema della medicalizzazione nella scuola e nella società. Se a Roma sono cresciute del 30 per cento le certificazioni di disabilità, a livello nazionale la situazione non è diversa. Ad esempio, secondo le ultime rilevazioni - che risalgono all'anno 2020-21- sono oltre 500mila i ragazzi e le ragazze che hanno ricevuto una diagnosi per disturbi specifici dell'apprendimento (Dsa).


Adolesce
Locandina della presentazione del libro «Siamo ragazzi, non siamo diagnosi»

⁠Professoressa Palmieri, è appena approdato in libreria il suo «Siamo ragazzi, non siamo diagnosi». Quali sono i motivi che l'hanno spinta a fare questa puntualizzazione?

«In primis l’osservazione della condizione minorile e giovanile dal punto di vista degli apprendimenti e dell’eccessivo numero di diagnosi che si riscontra nelle statistiche ministeriali, mi porta a sostenere il fatto che bisogna porre l’attenzione sul rischio medicalizzazione della scuola oltre che dell’infanzia e dell’adolescenza. I numeri sono altissimi: si ricorre costantemente a interventi di tipo psichiatrico per supportare il disagio giovanile».


Un tema di tendenza anche sui social

«Sui social c’è addirittura una grande promozione dell’autodiagnosi che porta i ragazzi quasi a identificarsi in maniera figa con un certo marketing della diagnosi che in qualche modo può facilitare anche il percorso scolastico. Quando qualcosa non va, si dice che non è colpa della scuola che non funziona o del ragazzo che non si impegna, è solo colpa di una patologia».


A Roma sono cresciute del 30 per cento le certificazioni di disabilità tanto che anche la spesa per gli Operatori educativi per l’autonomia e la comunicazione è passata da 60 a 90 milioni. A molti più bambini, dunque, vengono diagnosticati disturbi del comportamento. Una situazione simile a quella di altri comuni. Lei come se lo spiega?

«Con la deriva che hanno preso le politiche sociali ma anche quelle scolastiche. Daltronde, intorno alla diagnosi circola un' intera filiera che di questa diagnosi si nutre. Per avere una diagnosi un ragazzo deve passare attraverso una serie di operatori, dal neuropsichiatra infantile allo piscologo o per altre figure che fioccano come l’esperto del "disturbo del sognare ad occhi aperti". Tutte queste, intrecciate tra di loro, rappresentano la filiera che intorno alla diagnosi lavora e trae vantaggio».


Ma molti ragazzi e ragazze hanno disturbi specifici dell'apprendimento (Dsa) tanto che questi sono sanciti anche dalla legge

«Infatti nel 2010 è stata varata la legge 170 per riconoscere i cosiddetti disturbi dell'apprendimento. Questo significa che, a differenza di altre malattie, sui disturbi dell’apprendimento si è dovuto utilizzare uno strumento normativo. Cioè il legislatore ha dovuto santificare il fatto che, ad esempio, un bambino può essere dislessico perché ha difficoltà nella lettura. Neanche le malattie terminali vengono sancite per legge. I disturbi dell'apprendimento sì. Perché intorno ad essi c’è il fiorire di una larga filiera. Altrimenti non avrebbero ragioni di esistere una serie di specializzazioni per l'infanzia e l'adolescenza. E in quale settore? Quello della sofferenza e del disagio».


Un esempio?

«Un tempo si diceva che l’adolescenza fosse il periodo delle crisi, oggi è impossibile avere una crisi di crescita adolescenziale. Se un ragazzino si arrabbia, se è un contestatore, se non vuole uscire allora è considerato malato. Non è più possibile essere ribelli da quando, ad esempio, sono sanciti per legge i disturbi come l'iperattività o il disturbo oppositivo provocatorio. Proprio quello che nella nostra era sarebbe stato diagnosticato ad un bambino come Giamburrasca».


All'interno del suo libro c'è la foto di un cartello condominiale con la scritta «Vietato praticare qualsiasi tipo di gioco» alla quale qualcuno ha risposto «Allora ci droghiamo». Cosa rappresenta questo messaggio?

«Assistiamo, da una parte, all'indecisione politica di creare all'interno dei quartieri delle opportunità giovanili. Se non fosse scoppiato il caso Caivano non avremmo saputo della palestra abbandonata. Quante palestre abbandonate ci sono nei quartieri? Quante biblioteche chiuse? Dall'altro lato ci sono i comportamenti come quelli del cartello condominiale. Quando è impossibile giocare, avere campi di calcio, opportunità di aggregazione sana, allora è chiaro che c'è fibrillazione nei ragazzi. Ma questa fibrillazione deve essere fatta attraversare, non può essere diagnosticata e non può essere la ragione per avviare questi ragazzi nei corridoi della psichiatria».


Professoressa, nel libro scrive dell'aumento esponenziale delle diagnosi tra i bambini e gli adolescenti. Qual è la situazione?

«Nel 2020-21, l’ultimo anno di rilevazione dei dati ministeriali, troviamo 198 mila bambini diagnosticati con dislessia, 99 mila con disgrafia, 524mila ragazzi diagnosticati Dsa. A questi si aggiungono i 200 mila che accedono alla legge 104. E ancora: migliaia diagnosi di Adhd (disturbo da deficit di attenzione, ndr). E poi 2 milioni e mezzo di bambini in povertà. Se mettiamo insieme tutti questi numeri e consideriamo che in italia ci sono 9 milioni di bambini, ci rendiamo conto che circa due terzi dei minori sono diagnosticati. Questo denota il fallimento della politica in primo luogo ed anche di noi adulti, troppo fragili, figli di una cultura che ci ha impoveriti. Ecco perché è fondamentale lavorare insieme ai genitori».


Lei si occupa anche di formazione da presidente dell'Istituto nazionale di Pedagogia Familiare. Quale è dal suo punto di vista, il ruolo di genitori, insegnanti ed educatori per superare la questione della medicalizzazione a scuola e nella società?

«Non si devono fare cose speciali. Ognuno ha il proprio ruolo: i genitori quello di educare e dare affetto; la scuola quello di istruire e formare; il coach quello di insegnare a fare goal e a perdere. Bisognerebbe lavorare con i ragazzi sulla base della performance e non della diagnosi: "che cosa sai fare? Cosa non sai fare?" Un problema va osservato e capito. "Se hai una difficoltà puoi studiare più lentamente, ad esempio". Serve, dunque, una strategia didattica. La diagnosi, invece, è una generalizzazione»


Da poco è stata celebrata la Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Quali sono secondo lei oggi i diritti negati?

«Le celebrazioni sono cariche di ipocrisia. Celebriamo perchè ci sono dei problemi irrisolti. Non sono celebrazioni sia quelle del 20 novembre che del 25 (Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ndr). In entrambi i casi dovremmo andare tutti al cimitero. Quando in un Paese come l'italia abbiamo due terzi dei bambini in difficoltà e oltre 2 milioni in stato di povertà cosa c'è dal celebrare? I diritti negati? Parlerò dei bisogni vitali: mangiare, bere, accesso ai giochi, allo studio alla partecipazione. In mezzo ai venti di guerra, noi dovremmo semplicemente dire di essere con i bambini. Fino a quando il Governo non mette al primo posto della propria agenda i bambini sta perdendo».




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